Coltelli e pennelli:
l'allegra vita del Caravaggio
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Michelangelo Merisi (o Amerighi) detto il Caravaggio nasce a Milano il 29 settembre 1571, giorno in cui ricorre la festa di San Michele Arcangelo, da cui il pittore potrebbe avere ripreso il nome.
L’appellativo Caravaggio, invece (soprannome mai usato da nessuno durante la sua vita terrena, ma che gli appiopparono i posteri secoli dopo), nasce dal fatto che si ritenesse nato nel paese bergamasco di Caravaggio, come i suoi genitori.
E’ stato uno dei più grandi pittori della storia dell’arte italiana e maestro del Barocco europeo: la sua vita violenta, tormentata, alternava momenti di lusso sfrenato e raffinata cultura nei palazzi romani del Seicento a momenti condivisi con la feccia della strada.
Figlio di Lucia Aratori e del modesto architetto Fermo Merisi, iniziò la sua formazione nel 1584 nella bottega del pittore bergamasco Simone Peterzano, allievo di Tiziano (tant’è che si faceva chiamare Titani alumnus), dal quale impara la maniera brutale e diretta di rappresentare la realtà tipica dei pittori lombardi e l’interesse per la luce e colore veneto.
Scrive a proposito del modo di dipingere del Caravaggio, il biografo toscano Giovanni Pietro Bellori:“Invaghiti [molti] dalla sua maniera l'abbracciavano volentieri, poiché senz'altro studio e fatica si facilitavano la via al copiare il naturale, seguitando li corpi vulgari e senza bellezza.
Così sottoposta dal Caravaggio la maestà dell'arte, ciascuno si prese licenza (che sta per libertà nell’arte, termine usato per la prima volta dal Vasari), e ne seguì il dispregio delle cose belle, tolta ogni autorità all'antico e a Rafaelle, dove per la commodità de' modelli e di condurre una testa dal naturale, lasciando costoro l'uso dell'istorie, che sono proprie de' pittori, si diedero alle mezze figure, che avanti erano poco in uso.
Allora cominciò l'imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente: se essi hanno a dipingere un'armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma sboccato e rotto.
Sono gli abiti loro calze, brache e berrettoni, e così nell'imitare li corpi, si fermano con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi.”
Balla anche per tutti i violenti / Veloci di mano e coi coltelli / Accidenti!
Nel 1592, si trasferisce a Roma dove entra nella bottega di Giuseppe Cesari (1568-1640), meglio noto come Cavalier d’Arpino, il quale si serviva di giovani artisti per farli lavorare e guadagnare poi con i loro quadri.
La collaborazione tra il Cavalier d’Arpino e Caravaggio durò poco, soprattutto per via del carattere ribelle e scontroso di quest’ultimo che scelse di lavorare in proprio.
D’Arpino lo applicava "à dipinger fiori e frutti […] ma esercitandosi egli di mala voglia in queste cose - scrive il Bellori - e sentendo gran rammarico di vedersi tolto alle figure, [Merisi] incontrò l’occasione di Prospero Pittore di grottesche e uscì di casa di Giuseppe, per contrastargli la gloria del pennello."
Cavalier d'Aripino, autoritratto
A Roma Caravaggio frequenta le osterie dei quartieri malfamati che ritrae nei suoi dipinti catturando la vera natura di questa umanità emarginata e poverissima.
Tra le opere risalenti al periodo ricordiamo il "Bacco" degli Uffizi, "La buona ventura", la "Maddalena convertita", il "Giovinetto morso da un ramarro".
Caravaggio, Bacco, 1596, Olio su tela, cm 95x85, Galleria degli Uffizi, Firenze
Tali opere risultano molto utili a capire la caratteristica pittura giovanile del Merisi: ad esempio, nel "Bacco" degli Uffizi Caravaggio si serve del suo amico Mario Minniti che riproduce nei lineamenti della giovane divinità.
Il ragazzo è semisdraiato su un letto ed ha appena riempito di vino il bicchiere, come dimostrano i cerchi che ancora increspano la superficie del liquido corposo, mentre si rivolge allo spettatore.
Un gesto cordiale che invita chi è di fronte a partecipare, abbastanza insolito nella pittura del periodo, decisamente auto-referenziale.
Il dio Bacco è il simbolo pagano della figura di Cristo redentore, il quale offre il vino durante l’ultima cena, elemento che ricorda il sacrificio di quest’ultimo.
Nonostante si tratti di una divinità Caravaggio non idealizza la sua figura che resta fedele al ragazzo che ha davanti, o meglio, il suo riflesso nello specchio.
Caravaggio, La buona ventura, 1596-1597, Olio su tela, cm 115x150, Pinacoteca dei Musei Capitolini, Roma
De’ "La buona ventura" esistono due versioni, una conservata ai Musei Capitolini di Roma e l’altra al Louvre.
Rappresenta una scena di vita quotidiana molto frequente a Roma (anche oggi!), dove una zingara col pretesto di leggere la mano al giovane gli sfila l’anello dal dito.
La scena sembra imitare una rappresentazione teatrale in quanto i due protagonisti sono immortalati in primo piano su uno sfondo inesistente, che non ci fa distogliere l’attenzione dalla scena centrale.
La teatralità nell’opera del Caravaggio si accompagna all’estremo realismo dei dettagli, non solo negli abiti ma anche nei volti; Caravaggio sceglie come modella una vera e propria zingara, accentuando così ancor di più la trasposizione dal reale.
Il quadro sta a significare una condanna rivolta a coloro che vorrebbero venire a conoscenza della propria sorte non rispettando l’imprevedibilità della volontà divina.
La scena è ancora illuminata dalla luce, a differenza delle ultime opere dove il buio fa da scenografia.
Caravaggio, La maddalena penitente, 1594-1595, Olio su tela, cm 122,5x98,5, Galleria Doria Pamphili, Roma
Per la protagonista della "Maddalena penitente" Caravaggio usò come modella Anna Bianchini, la prostituta che frequentò per un breve periodo e che posò probabilmente anche per altre opere come "La morte della Vergine", "Marta e Maria Maddalena" (come Marta) e il "Riposo durante la fuga dall’Egitto" (per la figura della Vergine).
L’atteggiamento della donna è quello di penitenza, per il viso rivolto verso il basso mentre è seduta a braccia conserte.
Un’iconografia insolita per rappresentare la Maddalena, il cui volto ricorda l’iconografia di Gesù Cristo crocifisso in molti quadri.
Alla destra Caravaggio dipinge una natura morta composta da gioielli, collane, bottiglia di vetro con un liquido non ancora definito, oggetti che sono il simbolo dell’avidità, della vanità e del peccato appartenenti ormai, alla vita che la Maddalena ha deciso di abbandonare per seguire la strada della fede.
Caravaggio interpreta un tema religioso in chiave domestica, dove la profondità dello spazio vuoto circostante sottolinea la significato mistico della scelta. La luce che irrompe nella stanza, illuminando la donna e scacciando le ombre del peccato, anticipa il periodo più maturo e tenebroso del pittore.
Stessa vicenda anche per l’opera "Ragazzo morso da un ramarro" per la quale esistono due versioni che si distinguono in base al colore.
La prima realizzata tra il 1595 e il 1596 è conservata presso la Fondazione Longhi a Firenze mentre la seconda, datata tra il 1595 e il 1600, è conservata alla National Gallery di Londra.
Quella a cui si fa riferimento è la prima versione e, come la seconda, è precedente all’incontro col cardinale Francesco Del Monte.
La luce penetra nel quadro come un lampo nel buio e si riflette nel vaso, attraversa l'acqua e la boccia di cristallo.
Il giovane indossa abiti teatrali con la veste che ricorda l’abbigliamento degli antichi, insieme a una parrucca con il fiore.
L’espressione contratta del giovane al morso del ramarro rivela l’attenzione di Caravaggio per le espressioni e gli stati d’animo dei personaggi. Molto vicino al genere delle caricature (ovverosia alterazioni grottesche dei volti per mostrarne le emozioni e le sensazioni) entra in competizione con Leonardo, che quasi cento anni prima aveva cominciato la ricerca sulla rappresentazione delle emozioni attraverso il volto umano.
La sperimentazione delle espressioni estreme trova un ottimo esempio nel volto terrorizzato della "Medusa", ritratta nel preciso istante in cui è decapitata, e nell’opera "Giuditta e Oloferne".
In quest’ultima la trasposizione dei moti dell’anima è evidente nello sguardo concentrato di Giuditta, tesa mentre sta eseguendo la decapitazione di Oloferne, ritratto con la bocca fissata in un urlo di dolore.
Lo studio dei “moti dell’anima” aveva di certo un interesse maggiore per il pittore, se confrontata al disegno.
La mancanza di schizzi preparatori e cartoni del maestro conferma l’ipotesi della totale assenza della pratica del disegno preliminare, per cui venne accusato di “non intendere né di piani e né di prospettiva”.
Caravaggio lavorava ritraendo direttamente i singoli personaggi separatamente per poi assommarli progressivamente uno sull’altro, partendo dalle figure sullo sfondo.
Caravaggio, Ragazzo morso da un ramarro, Olio su tela, cm 65,8x52,3, Fondazione Longhi, Firenze
Come già accennato, le opere realizzate in questo periodo sono principalmente quadri a soggetti profani e di genere come nature morte, musici, giocatori di carte o zingari.
La Roma “del basso”, della vita dei vicoli, delle osterie, delle aggressioni e dei vizi è una costante della biografia caravaggesca e della sua pittura.
Caravaggio, I musici, 1595, Olio su tela, cm 92,11x118,4, The Metropolitan museum of art, New York
Uno di questi lavori, "I musici", gli farà guadagnare la stima del cardinale Francesco Del Monte, appassionato protettore delle arti e suo futuro benefattore, che lo introdurrà nei salotti dell’alta nobiltà romana.
L’opera venne esposta nella galleria del famoso commerciante di quadri Costantino Spada, collocata a pochi passi da Palazzo Madama: quella che sembra un’apparente scena musicale, dove tre attori mettono in scena un concerto, in realtà è messa in dubbio dalla presenza del cupido alato sulla sinistra.
La sua presenza induce a leggere il quadro come un’allegoria della passione amorosa: come il musicista crea suoni armoniosi con le corde del liuto, così cupido mette ordine nei cuori degli innamorati.
Caravaggio, Medusa, 1597, Olio su tela, cm 60x55, Galleria degli Uffizi, Firenze
Nel 1595 realizza l’opera "I bari", che sarà acquistata nel 1597 dal cardinale Del Monte.
Nel dipinto Caravaggio rappresenta un giovane ingenuo che sta per essere truffato da due imbroglioni durante una partita a carte: il contrasto delle vesti e delle pose distingue i ruoli dei tre personaggi e la loro appartenenza a classi sociali diverse, così come i loro gesti studiati comunicano perfettamente il loro stato d’animo.
Il gioco in questione è lo zarro, gioco d’azzardo d’epoca rinascimentale, padre dell’odierno poker, diffuso non solo tra i popolani ma anche tra papi e cardinali; addirittura Caterina de’ Medici ne fece il suo passatempo preferito.
Il giovane malcapitato (simbolo della gioventù ingenua e sprovveduta) indossa un vestito scuro con decorazioni nere mentre è intento a scegliere con accortezza le carte.
I bari, invece, indossano vestiti variopinti mentre sono in tensione, pronti a spiccare il balzo verso la loro vittima.
Caravaggio, I bari, Olio su tela, cm 91,5x128,2, Kimbell art museum, Fort Worth
Per la prima volta nella pittura i soggetti sono raffigurati non frontalmente, ma per tre quarti e viene colto il momento culmine dell’atto del fatto.
Per dare una maggiore carica realistica al quadro Caravaggio aggiunge oggetti presi dalla vita quotidiana come il guanto usurato del baro in primo piano, la decorazione della tovaglia, la scatola presente sulla sinistra e le piume rovinate del cappello, elementi che costruiscono una sorta di natura morta.
Con questo quadro, dal profondo significato morale, Caravaggio esprime la sua condanna nei confronti del vizio delle carte.
La tela oggi si trova in Texas, nel Kimbell Art Museum di Fort Worth.
Caravaggio, Bacchino malato, Olio su tela, cm 67x53, Galleria Borghese, Roma
Tra il 1596 ed il 1597 dipinge il "Bacchino malato" che con molta probabilità è un autoritratto del giovane Caravaggio malato, "grassotto con ciglia grosse et occhio negro", appena uscito dall’ospedale di Santa Maria della Conciliazione.
Il soggetto del quadro in questione è di nuovo Bacco, divinità della religione romana, dio del vino e della vendemmia che da sempre è considerato metafora dell’artista.
Il vino avrebbe la capacità di esaltare le facoltà della percezione e della mente: Bacco è ritratto con il volto pallido e le labbra bluastre con in mano un grappolo d’uva dal quale scaturisce del vino, sempre simbolo della resurrezione e della passione di Cristo.
La gamba piegata e sollevata è un ulteriore riferimento a Michelangelo, in particolare alle statue che ornano le Cappelle Medicee a Firenze.
Caravaggio, Canestra di frutta, Olio su tela, cm 31x47, Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Tra il 1594 e il 1598 realizza la "Canestra di frutta" per il cardinal Federico Borromeo, facoltoso mecenate d’arte, che entrerà a far parte della prestigiosa collezione conservata nella Pinacoteca Ambrosiana a Milano.
La canestra raffigura la prima rappresentazione della natura morta della storia dell’arte italiana che per la prima volta non ha più la funzione puramente decorativa ma diventa l’unica protagonista del quadro.
Caravaggio sceglie di rappresentare una natura non idealizzata ma così come appare nella realtà, nuda e cruda senza correzioni o abbellimenti artificiali che la rendono per questo originale.
Anche in questo caso usa la luce diventa lo strumento attraverso il quale indagare la realtà.
Analizzando il dipinto con attenzione, si puà notare che le foglie di vite sono accartocciate e non fresche; le foglie di pesca sono forate e sbocconcellate, segno che qualche insetto le ha precedentemente rovinate; la mela appare intaccata, le foglie di limone sono macchiate e gli acidini di uva appaiono rovinati.
La frutta e le foglie diventano il simbolo della vanitas, ossia della fragilità della vita e la transitorietà delle cose terrene, destinate a svanire nel tempo.
L’ambientazione circostante è annullata, non ci sono decorazioni o altri soggetti nel quadro ma una parete spoglia.
La cesta sporge dal ripiano proiettando un ombra come se stesse andando incontro all’osservatore: era proprio questo che l’arte rappresentava per Caravaggio, doveva cioè attrarre a se lo spettatore, portandolo a riflettere sulla sua stessa percezione delle cose.
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, 1599-1600, Olio su tela, cm 322x340, San Luigi dei Francesi, Roma
Comincia da questo momento a lavorare per tele più complesse, di grandi dimensioni con soggetti specifici episodi. Uno dei primi lavori fu "Riposo durante la fuga in Egitto" (1594-1595 circa; Galleria Doria Pamphili).
Nel 1599 la prima commissione pubblica che lo rese famoso: gli vennero commissionate tre grandi tele nella chiesa di San Luigi dei francesi a Roma (chiesa della nazionalità francese presso la Santa Sede).
Le tele erano per la cappella Contarelli voluta dal cardinale francese Mathieu Cointrel (italianizzato Matteo Contarelli) in onore del santo suo omonimo affinché lo proteggesse in vita e dopo la morte.
Gli episodi tratti dalla vita di San Matteo sono: "La vocazione di San Matteo", "San Matteo e l’angelo", "Il Martirio di San Matteo".
Caravaggio, San Matteo e l'Angelo, 1602, Olio su tela, cm 295 x 195, cappella Contarelli, San Luigi dei Francesi, Roma
Nella "Vocazione" Cristo, identificato con una leggerissima aureola, è accompagnato dal suo vicario Pietro mentre con la mano distesa chiama Matteo all’apostolato.
Quest’ultimo sorpreso si indica con il dito con un gesto ripreso dall’opera michelangiolesca nella Cappella Sistina.
La luce diventa simbolo di grazia divina, taglia la composizione e irrompe nelle tenebre per illuminare il volto di Matteo.
Intorno al santo si apre una scena familiare per farci sapere che Matteo era un uomo come tutti gli altri, e che tale familiarità e vicinanza a ciò che ci è più prossimo rende il senso del vero.
Nella pala d’altare "San Matteo e l’Angelo" (collocata nel punto più importante della cappella, dove si celebra l’eucarestia), il santo è rappresentato come un uomo del popolo con i piedi sporchi, senza aureola, su uno sgabello traballante mentre è ispirato dall’angelo.
Si scrive a proposito che:
“Non haveva ne decoro né aspetto di santo, stando a sedere con le gambe accavallate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo.”
Infine completa le trilogia il "Martirio", con il santo che sta per essere ucciso da un sicario nudo mentre attorno alla scena si crea un cerchio di terrore: il bambino spaventato che fugge, i catecumeni (cosi chiamati perché non ancora battezzati) si ritraggono, le mani nella sinistra sono simbolo di paura e distacco.
Ad irrompere questo momento di paura accorre un angelo, che scende dall’alto di una nube per consegnare la palma del martirio a Matteo.
Con il suo sacrificio ha ottenuto la gloria di Dio, e tutto è compiuto.
Sullo sfondo a sinistra l’autoritratto di Caravaggio: il pittore si affaccia e scruta il martirio come a interrogarsi sulla morte del martire.
Caravaggio, Martirio di san Matteo, 1600-16001, Olio su tela, cm 323x343, cappella Contarelli, San Luidi dei Francesi, Roma
Nella basilica di S. Maria del Popolo Caravaggio ci ha lasciato altri due egregi dipinti.
Per volontà del monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere generale della Camera Apostolica, cioè il ministro del tesoro del Papa (all’epoca Clemente VIII Aldobrandini), realizza due tele di dieci palmi per otto: la "Crocefissione di san Pietro" e la "Conversione di San Paolo".
Le due tele trattano due argomenti canonici fondamentali nella pittura religiosa simbolo di due importanti messaggi cristiani: il martirio e la conversione.
Dal martirio di Pietro la Chiesa sorge, mentre attraverso la conversione di Paolo si diffonde tra gli uomini.
Il contratto che monsignor Cerasi sottoscrisse con Caravaggio è famoso agli storici e si conserva tutt’oggi all’Archivio di Stato di Roma.
Tuttavia dal contratto emerge un’irregolarità interessante: i quadri non sono stati realizzati su legno di cipresso ma su tela.
L’ipotesi più accreditata è che la prima versione su tavola delle due tele venne rifiutata dagli eredi del committente dopo la sua scomparsa.
Attraverso una rete di eredità la "Conversione di Paolo" è finita nella collezione privata della famiglia Odescalchi a Roma, mentre la tela della "Crocifissione" è andata perduta.
Perciò le due tele che vediamo oggi nella Cappella Cerasi sono le due nuove versioni.
Caravaggio, Crocifissione di San Pietro, 1600-1601, Olio su tela, cm 230x175, Cappella Cerasi, S. Maria del Popolo, Roma
Guardando con attenzione la "Crocifissione di San Pietro" riconosciamo tre manovali intenti a trasportare con fatica la croce sulla quale è stato inchiodato Pietro.
Di loro non viene mostrato il volto ma solo le spalle, mentre sono resi alla stregua delle bestie e hanno il duro compito di alzare la croce.
La croce e il santo sono il simbolo della fondazione della Chiesa, che si costruisce attraverso il martirio del suo Primo Pontefice, Pietro da Petrus che in latino vuol dire pietra, rifermento al Vangelo secondo Matteo 16, 18-19:
«Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e [...] a te darò le chiavi del Regno dei Cieli.»
La luce scopre i personaggi di cui vediamo i corpi, mette in risalto le rughe nel volto di Pietro, i corpi brutali e robusti, le membra sporche sono esibite al pubblico senza pudore con toni color terra bruna.
Stando ai testi biblici, San Pietro decide di farsi crocifiggere a testa in giù come gesto di umiltà nei confronti del suo maestro Gesù.
Si può dire che Caravaggio segua l’iconografia tradizionale stravolgendone alcuni aspetti: la sofferenza del martire è trattata in modo violento, con un realismo dei particolari rappresentato dai chiodi infilzati nelle mani e nei piedi contratti, a cui si aggiunge la sensazione di drammatico movimento per via della prospettiva diagonale data dalla croce.
Caravaggio, La morte della Vergine, 1604, Olio su tela, cm 369x245, Museo del Louvre, Parigi
Nella "Conversione" la definizione dello spazio pittorico è affidato esclusivamente alla luce che si propaga nel buio, dove le figura sono disposte in maniera diversa dai tradizionali quadri religiosi e la potenza del gesto del personaggio disteso sembra illuminare la scena di una luce innaturale.
Poiché il cavallo occupa la maggior parte dello spazio, la tela è stata ironicamente chiamata la “Conversione del cavallo”.
La scelta di dare all’animale uno spazio così vasto, andando contro le regole dettate dalla Chiesa per la composizione delle figure nei quadri religiosi, non è scontata: il cavallo è il simbolo dell’irrazionalità del peccato che viene moderata dalla presenza del palafreniere, simbolo della ragione.
La luce invece è metafora della grazia divina che allontana le tenebre del peccato (il fondo scuro).
Inoltre, il fondale così nero, oltre a rimandare alla gravità dell’evento religioso, si presta in modo sublime a far emergere i volumi plastici dei personaggi ed in particolare del cavallo.
Anche qui i protagonisti sono di nuovo soggetti popolari, che esprimono in maniera drammatica e realistica lo svolgersi degli avvenimenti.
Caravaggio, Madonna dei pellegrini, 1604-1606, Olio su tela, cm 260x150, cappella Cavaletti, Sant'Agostino, Roma
Questa esasperata attenzione al realismo dei soggetti non sempre piace ai committenti che spesso respingono le opere del Caravaggio.
"La morte della Vergine" viene pertanto rifiutata per la modalità di rappresentazione della scena, non proprio fedele al racconto dei testi sacri e le regole classiche iconografiche: la Madonna è distesa su un tavolaccio in un ambiente spoglio, con il ventre e le caviglie gonfie, la faccia a terra e nessun riferimento alla sua sacralità.
Siede accanto a lei la Maddalena, tristemente accovacciata per la scomparsa della Vergine.
Per l’eccessiva crudezza la scena non fu accettata dai Carmelitani Scalzi che lo avevano commissionato per decorare la cappella Cherubini in Santa Maria della Scala a Trastevere in Roma.
La Vergine è rappresentata con le sembianze di una donna del popolo, ed è probabile che Caravaggio scelse una prostituta per darle il volto e il corpo.
Caravaggio, Deposizione, 1602-1604, Olio su tela, cm 300x203, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano
C’è solo un sottilissimo cerchio dorato dietro la testa di Maria come prova del suo essere divino.
Sullo sfondo fa da cornice il drappeggio rosso cardinale, simbolo del sangue e della violenza, mentre richiama l’abito rosso della donna, dando all’ambiente la tipica teatralità barocca.
L’intento del dipinto è quello di dare maggior spazio al dolore umano e alle emozioni vissute in maniera diversa da ciascun personaggio, piuttosto che alla sacralità del momento religioso. Come ci spiega Giovanni Battista Agucch Agucchi:
"Le cose dipinte, et imitate dal naturale piacciono al popolo, perché egli è solito a vederne di sì fatte e l'imitazione di quel che a pieno conosce, li diletta"
E’ certo ormai che le donne prese a modello per le sante e le madonne erano per lo più prostitute che Caravaggio frequentava nelle bettole romane.
Oltre alla già citata Anna Bianchini, c’era Maddalena Antognetti, meglio conosciuta come Lena, la quale non era una meretrice qualunque ma si distingueva per aver frequentato clienti illustri.
La vediamo ritratta nei panni della Vergine nella "Madonna dei Pellegrini" in Sant’Agostino, nella tela che adornava un altare pubblico in una zona molto prestigiosa di Roma: il quadro rappresenta due devoti visitatori giunti alla casa di Loreto al termine di un percorso di pellegrinaggio.
L’ingresso della santa casa è ritratto come fosse lo stipo di una porta povera, per una casa che non è in volo come vuole la tradizione cristiana ma è stabile a terra.
La Vergine si affaccia vestita di abiti popolani, con una flebile aureola al posto del velo giallo che contrassegnava le prostitute, mentre accoglie i due viandanti guardandoli pietosamente ed amabilmente.
Sostiene in braccio il bambino Gesù fin troppo grandicello, che a differenza della madre non accenna nessun gesto di indulgenza nei confronti dei fedeli inginocchiati.
Caravaggio, Decollazione di san Giovanni Battista, 1608, Olio su tela, cm 361x520, La Valletta (Malta), oratorio di San Giovanni Battista dei Cavalieri
Quando fu collocata sull’altare l’immagine destò scandalo non tanto per la singolare iconografia della Madonna, ma per quei piedi sporchi e feriti dei pellegrini.
L’idea di trasferire questa scena di devozione in un vicolo di Campo Marzio conquista l’attenzione dei fedeli e rende l’incontro con la Vergine un episodio quotidiano.
Caravaggio aveva fatto proprie le letture di San Carlo Borromeo sull’importanza del popolo in quanto più vicino a Dio di chiunque altro.
Soprattutto i più consumati dalle fatiche erano coloro che a maggior ragione si meritavano la vicinanza di Dio, e bisognava esaltarli e non occultarli.
I loro tratti nudi, consumanti dal tempo rappresentano ciò che di più spirituale e alto ci sia e sono simbolo di ubbidienza e devozione.
I tratti brutali sono messi in risalto dalla luce, come la veste vellutata di colore rosso presente nel corpetto della Madonna, ripresa dalla tradizione veneziana iniziata dal Tiziano.
La giovane Lena torna protagonista nella tela della "Madonna dei Palafrenieri", inizialmente commissionata per la basilica di san Pietro verrà poi spostata nella poco distante chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri, dal quale prende il nome.
Nell’ultimo periodo di lavoro e soggiorno a Roma, cioè tra il 1602 e il 1604, il Merisi lavorò anche all’unica opera pubblica che non incontrò dissensi tra i suoi commissionari e che oggi possiamo ammirare nella Pinacoteca Vaticana: si tratta della "Deposizione dalla croce" che doveva adornare la prima cappella a destra nella chiesa di Santa Maria in Vallicella su commissione del nipote di Pietro Vittrice, maggiordomo e guardarobiere di papa Gregorio XIII.
Il Vittrice era stato guarito miracolosamente grazie all’intervento di Filippo Neri ed era per questo motivo molto legato all’oratori.
Il titolo della tela suggerisce una deposizione, in realtà viene rappresentato il momento precedente, quello in cui Cristo viene sceso dalla croce per essere adagiato sulla Pietra dell’unzione, vale a dire la pietra tombale con cui verrà chiuso il sepolcro.
A reggere il corpo di Cristo c’è Nicodemo, che volge lo sguardo verso di noi come a volerci dimostrare che il fatto è realmente accaduto (secondo la religione cristiana Nicodemo avrebbe dipinto il primo ritratto di Cristo perciò iconograficamente incarna l’artista-testimone), mentre dietro di lui ci sono le tre marie ciascuna delle quali ha una reazione diversa, dalla più dimessa alla più straziante.
A partire da destra identifichiamo Maria di Cleofa, cugina o sorella della Vergine, la quale esprime il suo dramma con le braccia alzate e un urlo di sofferenza, la Maria Magdala, dalle lunghe trecce e con il volto chinato, c’è la madre con il volto impietrito dal dolore, c’è Giovanni l’Evangelista che cerca di sfiorare per una ultima carezza il corpo del maestro così amato.
L’aspetto monumentale delle figure riempie completamente la scena come fosse un altorilievo antico.
Al tutto si aggiunge l’equilibro precario dato dalla disposizione dei cinque personaggi sopra la pietra tombale, di cui vediamo lo spigolo in primo piano.
Il corpo senza vita di Cristo è sorretto con fatica e dolore dagli apostoli Giovanni e Nicodemo, e si contrappone ai gesti energici dei personaggi creando un’atmosfera di tensione e dramma.
Il braccio pende senza vita sfiorando la pietra sepolcrale con tre dita che simbolicamente alludono ai tre giorni che precedono la resurrezione.
È un'iconografia importantissima (o meglio un Pathosformel, letteralmente formula di pathos, rappresentazione di uno stato d’animo), che ha origine dai bassorilievi greci e romani per la rappresentazione della morte di Meleagro e sarà poi usata nella rappresentazione del compianto di Cristo da Michelangelo, Raffaello fino a Jacques-Louis David.
Caravaggio si allontana dalla tradizione precedente per il modo di distribuire le figure nello spazio: non lungo un piano orizzontale, come in un bassorilievo, ma secondo una diagonale che taglia trasversalmente il quadro portando con se a cui segue un ventaglio variegato di reazioni alla tragedia, dal corpo senza vita di Cristo al dolore estremo e vivo delle tre Marie.
Il telo bianco alle spalle è il sudario che cala sulla pietra e finisce per toccare la pianta che emerge dal buio come simbolo di vittoria della vita sulla morte.
Da notare come in questo quadro sono riconoscibili alcune citazioni michelangiolesche a partire dal volto di Nicodemo dagli stessi lineamenti di Michelangelo Buonarroti, mentre altri studiosi lo ritengono un ritratto di colui che aveva desiderato la realizzazione dell’opera, ossia Pietro Vittrice; oppure la citazione del braccio di Cristo privo di vita come nella Pietà a San Pietro.
Introdurrà un’ulteriore novità nell’iconografia del tema della resurrezione con l’"Incredulità di San Tommaso" per il quale sceglie un formato orizzontale della tela, totalmente occupato dalle quattro figure monumentali centrate su uno sfondo scuro.
L’estrema grandezza e vicinanza dei personaggi fa concentrare lo spettatore sull’unica scena, valorizzata senza aggiungere distrazioni nel dettaglio, e allo stesso tempo si riconosca all’interno del quadro come quinto spettatore.
L’attenzione è focalizzata sulla mano di Gesù che prende quella di Tommaso e la guida verso la ferita, in un gesto pieno di tenerezza, a cui si accompagna la luce che ne illumina le carni e i volti increduli.
Nel 1606, la vita di Caravaggio subisce un duro cambiamento quando in una rissa, scoppiata durante una partita a pallacorda, uccide l’amico Ranuccio Tommasoni: l’artista viene condannato alla decapitazione ed è costretto a fuggire da Roma.
Da questo momento in poi la morte diventa uno dei temi ricorrenti dei suoi quadri, che ritrarranno spesso scene di decapitazione come nella "Decollazione di San Giovanni Battista" o nel "Davide con la testa di Golia" (di cui abbiamo due versioni).
Dal 1606 al 1610 Carvavaggio si frasferì a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, dove vi rimase per un anno.
Fu un periodo piuttosto tranquillo dove l'artista ebbe modo di lavorare: furono eseguiti durante il soggiorno napoletano "Salomè con la testa del Battista" (1607), la prima versione di "Davide con la testa di Golia" (1607), la "Flagellazione di Cristo" (1607).
Si rifugia successivamente a Malta dove nel 1608 riesce a entrare nell’ordine dei Cavalieri di Malta.
Caravaggio, Davide con la testa di Golia, 1605-1606, Olio su tela, cm 125x100, Galleria Borghese, Roma
Per l’ordine esegue la "Decollazione di San Giovanni Battista" del 1608 dove il santo disteso a terra è stato ormai decapitato e un fiocco di sangue si spande sul terreno e assume la forma di una vera e propria firma da cui si legge “Fra Michelangelo” (frate perché così si chiamavano i cavalieri dell’ordine di Malta). Con questo quadro rappresenta se stesso su cui la pena di morte aveva fatto seguito.
Ma anche a Malta il Caravaggio rimane ben poco, poiché durante l'ennesima rissa ferì un altro membro dell’ordine di grado più elevato e venne imprigionato.
Ferito e debole, decise di intraprendere un viaggio verso Roma per invocare la grazia al pontefice ma durante il tragitto le sue condizioni peggiorano irrimediabilmente, quasi sicuramente per via di un'infezione all'intestino trascurata nel tempo e che lo stava conducendo alla setticemia.
Con lui nella barca c’erano un po’ di opere che portava con se, tra cui "Davide con la testa di Golia".
Un giovane Davide guarda la testa decapitata con profonda compassione, non è il vincitore che ha sconfitto il nemico ma colui che ha realizzato la pena di morte.
La testa di Golia infatti è un autoritratto del Caravaggio: nessun artista fino ad ora aveva mai osato rappresentare questo tema con accenti così intensi, drammatici e sconvolgenti.
L’artista non raggiungerà mai Roma ma morirà a Porto Ercole il 18 luglio 1610 a soli 38 anni: per crudele ironia della sorte, non saprà mai che il pontefice qualche settimana prima lo aveva assolto dai suoi crimini, concedendogli la grazia.
Caravaggio: un genio riscoperto
Michelangelo Merisi non poté godere di molta simpatia tra gli addetti ai lavori del mondo artistico durante il corso della sua breve, seppur intensa esistenza: la sua pittura così cruda, realistica e per nulla edulcorata (fin troppo terrena e per niente sacra) incontrò molti ostacoli in una società, quella di fine '500/inizio '600, sicuramente 'rinata', ma ancora assai bigotta e poco incline alle novità così dirompenti come le pennellate del Caravaggio.
Non di meno, l'artista fu sicuramente molto famoso ed ammirato in vita soprattutto dal popolo, ma fu ben presto dimenticato subito dopo la prematura morte: critici e colleghi pittori di lui parlarono sin troppo male - spesso, con il puro intento denigratorio - e tutta la sua opera cadde in un lunghissimo periodo d'oblio, che perdurò addirittura fino alla metà del XX secolo.
Molto del mito sulla sua persona, in particolar modo sulla sua natura violenta ed assassina, appare francamente poco plausibile, analizzato scientemente: è vero che il Merisi usava frequentare i peggiori posti della plebe, ma è anche vero che per tutta la sua vita raramente gli fu data occasione (e denaro) per elevare le sue frequentazioni sociali.
Di sicuro nato con carattere non propriamente delicato e cortese, appare però esagerata l'immagine del pittore pazzo ed assassino che è uscita fuori nel corso dei secoli: il Caravaggio era parte di un tessuto sociale di per sé violento e crudele, in una Roma - ed Italia in generale - dall'elevatissimo livello di criminalità, analfabetismo e dove lo stato civile per come noi lo conosciamo semplicemente non esisteva.
Se già ai giorni nostri una larga parte della popolazione povera e poco acculturata è sistematicamente emarginata e con poche possibilità di riscattarsi (sia umanamente che economicamente), si pensi cinquecento secoli fa come poteva essere la situazione.
In questo contesto, appare più umana la condizione di Caravaggio: un pittore protetto da pochi mecenati di rilievo, dalla pittura spessissimo poco apprezzata dagli stessi suoi committenti, che tra le altre cose non proveniva da famiglia aristocratica.
Vero è che uccise un uomo in una rissa, così come è vero che il pittore difficilmente si faceva passare la classica 'mosca al naso'; tuttavia, per un artista si guadagnava il campare essenzialmente dipingendo opere sacre per le chiese romane, appare sciocco credere che abbia volutamente commesso i suoi delitti premeditati, per di più contro i nobili romani del periodo.
Piuttosto, è plausibile pensare che tutti i guai con la legge avuti siano stati frutto un po' del suo turbolento carattere è vero, ma un (bel) po' anche per la società in cui viveva, violenta e ben poco rispettosa della vita umana.
L'omicidio di Ranuccio Tomassoni, accaduto giocando al tennis dell'epoca (la pallacorda), sicuramente è degenerato per questioni già pregresse tra i due: molto probabilmente per una donna contesa da entrambi, per questioni politiche, per debiti non pagati oppure tutte e tre le cose assieme.
La rissa che scaturì per un futile motivo durante il gioco (un fallo), non è ovviamente il movente dell'omicidio: piuttosto, fu la scintilla che fece divampare il fuoco già sopito tra i due, ed il Caravaggio, nella foga della lotta, fece niente altro quello che il suo rivale avrebbe voluto fare a lui, solo che lo fece prima.
Gli scritti pervenuti del processo e le testimonianze dei presenti affermano anche che fu proprio il Tomassoni a provocare pesantemente il Merisi durante il gioco, e che fu lui anche a sfoderare per primo lo stocco.
Stando a questo fatto e prendendo per buona questa ricostruzione, il Caravaggio tirò fuori il ferro per difendersi in primis, e solo poi per ferire mortalmente il rivale.
Nonostante fosse stato un piuttosto rapido duello 'solo a solo', come si usava dire all'epoca, Caravaggio dovette poi rintuzzare la furia del fratello del Tomassoni, Giovan Francesco, che ferì gravemente alla testa il Merisi ed infilzò pure quasi mortalmente il suo compagno Petronio Troppa.
Si potrebbe parlare, in termini moderni, di un omicidio colposo, al massimo preterintezionale, senza peraltro escludere la probabile legittima difesa.
Di certo non opera di un pazzo squilibrato perennemente alterato, come s'è fatto credere sino a pochi decenni fa.
La severa punizione ricevuta per il delitto (la condanna a morte per decapitazione, che chiunque poteva effettuare seduta stante) è da ricercarsi, verosimilmente, nella posizione sociale del Tomassoni: era figlio di un ufficiale militare di alto grado di Terni, e per questo ottimamente ammanicato con la gendarmeria pontificia.
La riscoperta di tutto il lavoro caravaggesco è da attribuire in prima battuta al famoso storico Roberto Longhi, che fu tra i primi a far uscire il pittore dal letargo dei 'minori' del suo periodo, sollevandolo tra i grandi maestri della pittura.